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"Neglectis rejectisque": l’Antico Ospedale San Gallicano

Lapide marmorea posta all'ingresso della struttura

Poveri di oggi e poveri di ieri: dalla sua nascita settecentesca il “San Gallicano” si occupa di loro, delle loro malattie, delle loro sofferenze. Una lunga tradizione di medicina “sociale” che, senza soluzione di continuità, ci porta dalle polverose contrade della Roma papalina della fine del XVII secolo, dalla sua plebe reietta e dimenticata, alle nuove povertà di oggi, e alle loro vecchie e moderne malattie.

Si tratta di intraprendere un “viaggio” nel tempo, ripercorrendo le principali tappe che dalle origini dell’ospedale “San Gallicano” conducono alla nascita e allo sviluppo dell’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP). Questo, nato nel 2007, affonda però le proprie radici in secoli di ars medica praticata all’interno delle sue storiche mura ospedaliere e recuperano oggi, grazie proprio all’INMP, il senso originale della propria missione a favore dei più vulnerabili, degli ultimi, per dare a ciascuno la giusta dignità di cura e di umanità.

Il viaggio comincia fra il XVII e il XVIII secolo quando, a causa delle condizioni di vita disagiate e della scarsa igiene della maggioranza della popolazione, le malattie cutanee costituivano un grave problema di salute pubblica per la città di Roma. Infatti, dietro la fastosità settecentesca, la città mostrava una chiara spaccatura tra una minoranza ricca e privilegiata e una maggioranza che viveva in condizioni di estrema povertà, e che vedeva al suo interno un notevole aumento di malati di lebbra, di tigna e di rogna. Allora, sulla base del possibile contagio che erano in grado di veicolare, le persone affette da malattie cutanee venivano distinte in due grandi gruppi: da una parte c’erano i miserabili che, non avendo una fissa dimora, rappresentavano un pericolo rilevante di pubblica sanità; dall’altra i poveri che, pur possedendo una propria abitazione, creavano una forte minaccia di contagio verso i loro stessi familiari. A causa del rischio di contagio dei malati, il Pontefice Alessandro VII (1689-1691) aveva indetto che gli Ospedali romani, e in particolar modo il “Santo Spirito”, prevedessero al loro interno alcuni letti per questi pazienti e che i letti fossero sistemati in specifici reparti, in modo da essere lontani dagli altri ricoverati. Le ovvie difficoltà riscontrate dai nosocomi nel realizzare una simile organizzazione rendeva impossibile affrontare la situazione e costringeva i soggetti con patologie dermatologiche a vagare per le strade in cerca di assistenza e carità, che puntualmente trovavano solo presso strutture caritatevoli, quali ad esempio l’opera di Don Emilio Lami (vedi approfondimento).

Agli inizi del XVIII secolo, la situazione igienico-sanitaria e la contemporanea chiusura del piccolo ospedale San Lazzaro, funzionante come lebbrosario dal 1080, resero di fatto necessaria la costruzione di un ospedale che si prendesse carico di una moltitudine di malati dermatologici.

E così, il 14 marzo 1725, Papa Benedetto XIII celebrò, su un altare eretto provvisoriamente e di fronte a una folla di gente, la messa per la posa della prima pietra dell’Ospedale dedicato ai santi Maria e Gallicano (vedi approfondimento). Il Papa ne affidò la realizzazione all’architetto Filippo Raguzzini, la cui fama era giunta fino al Vaticano dopo aver ultimato alcune opere di rilievo a Benevento e a Napoli. Egli impiegò circa diciotto mesi a terminare i lavori: il 6 ottobre 1726, con la consacrazione della Chiesa, degli altari e delle campane, l’Ospedale fu completato, entrando a pieno titolo nella storia dell’architettura e dell’urbanistica del Settecento, prima di tutto come autorevole testimonianza del Barocco romano.

Inserito a Trastevere, in uno dei contesti rionali più famosi e caratteristici della vecchia Roma, l’Ospedale suscitò interesse in tutta Europa per le sue straordinarie innovazioni nel campo dell’ingegneria sanitaria.
La sua modernità risiedeva nell’allacciamento di una rete di adduzione delle acque bianche che univa l’Acqua Paola (fontana posta sul Gianicolo) sino all’Ospedale, e poi permetteva una successiva distribuzione interna in vari canali minori per i diversi usi. Anche la realizzazione di una rete fognaria cui facevano capo i “siedini” a servizio dei degenti, posti tra letto e letto e ricavati nello spessore della muratura della facciata, rappresentava una dotazione di impianti igienici di indiscussa novità per l’epoca.

Le finalità sanitarie e sociali dell’Ospedale erano riportate in maniera evidente già nella sua Bolla di fondazione: il San Gallicano era un ospedale nato “pro curandis pauperibus et miserabilus” affetti da “lepra, scabie et tinea, seu prurigine in capite”. I medesimi concetti sono incisi sulla lapide marmorea, ancora oggi presente, situata all’ingresso della struttura ospedaliera. “Sonovi curati tutti i morbi, toltone il gallico” così, nell’“Accurata, E Succinta Descrizione Topografica, E Istorica Di Roma Moderna” (1767), l’abate Ridolfini Venuti Cortonese descriveva sinteticamente le attività sanitarie svolte nell’ospedale di ultima realizzazione. Mentre venivano accettati i malati dermatologici, erano di fatto escluse dal ricovero le persone affette da “lepra et scabie venerea seu gallica”, in altre parole le persone colpite da malattie veneree. Successivamente, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, furono accettati i primi pazienti affetti da sifilide fino ad allora esclusi, soprattutto per motivazioni di natura morale, e obbligati a rivolgersi unicamente all’ospedale San Giacomo, detto degli Incurabili. A promuovere questo cambiamento fu il primario dell’epoca, Pietro Schilling, un’autorità nel campo della dermatologia, che considerò le manifestazioni cutanee della sifilide degne di essere prese in considerazione nel suo ospedale, non diversamente dalle altre patologie della superficie del corpo umano, e quasi come queste ultime trattate. Con un successore di Schilling, Gaetano Ciarocchi, l’intera patologia venerea, compresa la gonorrea, fu inclusa nell’ambito dermatologico di pertinenza del San Gallicano. Il San Gallicano divenne un luogo dedicato all’accoglienza e alla cura dei malati di Roma e dei pellegrini affetti da patologie della pelle gravi e ripugnanti, fino allora esclusi ed emarginati: questa era la volontà del Pontefice.

Esterno dell'edificio - Foto storica

Inoltre, fin dalle sue origini, l’ospedale non si limitò ai soli aspetti sanitari ma prestò attenzione anche alle esigenze sociali. I malati poveri non ricoverati potevano ricevere cure ambulatoriali e, nelle notti d’inverno, trovare rifugio in un ricovero con legna e fuoco. Al momento delle dimissioni, veniva messo a disposizione il vestiario di scarto della flotta mercantile e alcuni medicamenti erano offerti gratuitamente ai poveri. Con particolare attenzione, condizionata però da inevitabili pregiudizi morali, vennero trattate le prostitute: se da un lato si tentava di “riscattarle” e di modificarne la condotta affidandole alla cura di suore incaricate di assisterle spiritualmente, dall’altro non si risparmiarono nei loro confronti tutti gli sforzi terapeutici consentiti dalla scienza dell’epoca.

Nel corso degli anni, le attività si svilupparono e l’ospedale divenne struttura di riferimento extraregionale per il trattamento di diverse malattie dermatologiche e veneree. Testimonianza del crescente rilievo raggiunto nel tempo si trova nell’Ordinamento di Papa Leone XII del 1826, che stabiliva come gli studenti di medicina fossero obbligati a frequentare l’ospedale per seguire gli insegnamenti di dermatologia che si tenevano nell’elegante Teatro Anatomico, realizzato proprio in quel periodo. Nel corso del XIX secolo, all’interno della Sala venivano svolte lezioni di dermatologia, dal momento che l’ospedale era divenuto luogo di insegnamento universitario.
Agli inizi del XX secolo, la struttura divenne un centro specializzato in dermatologia e infezioni sessualmente trasmesse, sempre mantenendo la sua missione originaria di accoglienza e cura delle persone indigenti e socialmente escluse. Una missione che mantiene anche ai giorni nostri: dal 2007, infatti, è la sede dell’INMP. Nei suoi ambulatori si pratica oggi una “nuova” medicina che, con un approccio olistico, integrato e transculturale, presta assistenza alle nuove forme di povertà ed emarginazione, mentre nei suoi uffici si svolge con continuità un’opera di formazione e di ricerca dedicata alla medicina sociale, antropologia medica e mediazione transculturale. Ancora oggi, l’Istituto è punto di riferimento nazionale per l’assistenza d’avanguardia ai neglectis rejectisque del nostro secolo.